

Trovare una persona che potesse essere adatta ad aiutarci nel classificare le nostre fotografie ci pareva all’inizio un compito affatto semplice. Ma guardando un quadro appeso in soggiorno, una fotografia che sa di Rosandra, mi è venuta improvvisa l’ispirazione: nonno Berto!!! Il famigliare e affettuoso appellativo altro non è che Umberto Vittori, padre di Bobo, che ha dedicato buona parte della vita a curare la sua passione per la fotografia. Ed ecco ben presto momenti espositivi che l’hanno fatto conoscere ai più, con visioni non solo locali bensì pure internazionali. Dal suo inizio, anno 1969 alla Galleria Barisi con una prima personale, a Bucarest (Romania) nel 1982 con Trieste e il porto; a New Jork, Galleria Keith de Lellis, dove gli vengono acquistate dieci opere nel 1999, a Kranjska Gora nel 2004 (Slovenia) per Senza Frontiere, assieme ad un fotografo austriaco ed uno sloveno, a Szombathely (Ungheria) nel 2008 con“Joyce in Ponterosso e dintorni”, una ricostruzione della vita dell’autore; per non parlare delle innumerevoli esposizioni in campo triestino e più in generale italiano. Cosa dire quindi di “Nonno Berto”? Forse può bastare come credenziale la sua appartenenza al Circolo fotografico triestino da circa 45 anni. (foto F. Fabris)
PS: i risultati del concorso, con le relative premiazioni, verranno resi noti il giorno 14 gennaio 2011 durante la festa finale all'anno del monte Carso 2010.
Monte Carso/Vrh Grize
Neve venerdì, sole sabato… e domenica? Non c’è problema, la gara in Grotta Gigante non teme più di tanto il tempo. 800 metri di campestre esterna però sono un impiastro: chi sgambetta bene sul falso piano vola, chi arranca si impantana. Il cielo è grigio, lo spazio antistante l’ingresso della grotta è un fermento ovattato in armonia con la volta celeste. Gente che si riscalda facendo attenzione ai tratti ghiacciati insidiosi sull’asfalto. Nel gazebo gli aromi del te si confondono con quelli del vin broulè… Nei vapori alcolici che salgono nell’aria ritornano i ricordi delle prime edizioni della cronotraversata del Maestro, gara unica in Italia che trova la paternità negli anni d’oro della prima dirigenza del CaiCim della Sag di Trieste. Io li ricordo da figura marginale, una delle tante silenziose formichine che in genere non emergono mai alla luce, ma che impiantano un tassello organizzativo che rende la festa finale completa. Le serate nel soggiorno di casa, ritmi serrati riscaldati dalla fiamma del caminetto, nel preparare i pettorali, i premi, gli elenchi per le iscrizioni… più di 500 in una mitica edizione. Di più non si poteva, non perché non c’era spazio per correre, la Gigante può contenere nel suo interno la cupola della basilica di S. Pietro, ma perché la gara non poteva durare all’infinito… la partenza individuale scandagliata da 30 secondi di differenza, per evitare ammassamenti pericolosi, è una strategia indispensabile…mentre la mente spazia nei meandri del passato, il tempo passa, il cielo si fa sempre più minaccioso, sugli ultimi corridori i primi fiocchi di neve che ricominciano a riempire l’aria. Questa edizione sarà ricordata soprattutto per la velocità con cui le teste di serie si sono spinte sui 500 gradini della risalita (8:29.5!!! totali per il vincitore) ma anche per lo spiraglio aperto dalle future leve (annate ‘90 e ‘95) che, conquistando con 10: 22 e 10:25 la 21 e 22 posizione, fanno ben sentire il loro fiato sulla schiena dei grandi… Grande la grotta, sempre magica, sempre emozionante correrci da luce a luce, passando per la pancia di questo "gigante" fenomeno ipogeo carsico…
Una settimana fa, alle 6.06 del mattino, il regionale minuetto si muoveva lentamente dal binario numero quattro della stazione ferroviaria di Trieste. Una minuta folla di genitori fra l’assonnato, l’ansioso e il preoccupato si faceva sempre più piccola assieme al loro agitare la mano in segno di saluto. Zaini colorati, panciuti a volte all’estremo, salivano non senza difficoltà sull’alto porta pacchi dello scompartimento. Nell’aria c’era, nonostante il risveglio molto anticipato rispetto al normale ritmo dell’inizio settimana, un’aria elettrica, vivace, curiosa. Noi due insegnanti accompagnatori bene o male sapevamo quale sarebbe stata la nostra sorte ma Paolo, il nostro accompagnatore Cai, si guardava attorno interrogativo: fra i tanti zaini spiccava uno stonato borsone da viaggio. Ovviamente era collegato ad un paio di scarpe di ginnastica per niente montane…tutto l’incontrario delle indicazioni date in classe. Il proprietario emanava uno spirito cittadino contro cui non c’era speranza. Bisognava solo portare pazienza. Per fortuna era l’unico fra 23 anime pronte a dovere per affrontare una due giorni in mezzo ai monti, nelle meravigliose montagne delle Giulie. Il nostro campo base era il rifugio Grego, dove ci aspettava il mitico Renato, il gestore silenzioso che con gentilezza montanara sa anticipare i tuoi bisogni. Fuori faceva un buio pesto, l’alba stentava ad avanzare, ci sono volute almeno un paio di stazioni per vedere l’inizio del giorno avanzare lentamente da est. Le Giulie erano là in fondo all’orizzonte e ci stavano per donare una giornata indimenticabile. Il cielo terso prometteva infatti un regalo insperato in un autunno ricco di umidità e pioggia. Il cambio a Carnia ha fatto subito capire che l’aria sarebbe stata diversa da quella di Trieste, molto più frizzante e pizzicchina. Il pullman sostitutivo aveva lo spazio sufficiente per ospitarci tutti fino a Valbruna dove un trasporto privato ci avrebbe portato fino in fondo alla sgargiante Saisera, avvolta ancora per pochi minuti nel biancore della brina. Paolo era brillante, sentiva il peso del suo incarico posarsi pesante sulle sue spalle ma era ugualmente disponibile e preciso. La mandria si mise in moto rumorosa ai piedi dell’austero sguardo della nord del Jof Fuart e del Montasio. Il crudo del mattino si trasformò ben presto in tiepido calore grazie al sole che accompagnò il nostro salire fino al rifugio. Gli zaini colorati seguivano con precisione quello ritmato di Paolo, il borsone resisteva anche se con difficoltà. Le retrovie sbuffavano appesantite da chili di merendine e bibite ma la marcia procedeva fiduciosa. Irrefrenabili esclamazioni di gioia si sollevarono appena in vista ai tetti rossi del rifugio. Il pranzo al sacco, divorato con una non comune velocità, non fu certo un impedimento temporale per la nostra piccola escursione pomeridiana al laghetto e poi alla sella di Sompdogna. Il silenzio del bosco era un’utopia sonora, la chiacchiera continua, con modulazioni medio-alte non permetteva certamente di poter avvistare nemmeno una lumaca. Paolo non perdeva occasione per cercare di catturare la loro attenzione sulle tante particolarità naturali e umane offerte del luogo. Far immaginare la linea di un antico confine lungo un solco ancora visibile, riportare alla guerra fredda davanti ai resti delle fortificazioni artificiali fu un compito non poco arduo. Sullo spiazzo davanti al rifugio, mentre l’esuberante di turno doveva fare il candelabro, tenendo in mano per punizione un lungo ramo di qualche albero appena segato, tutti appresero come chiedere aiuto in caso di pericolo, come comunicare con un elicottero per richiedere il suo intervento, lezione che si concluse sugli appunti precena dove si aggiunse pure il come si deve andar per monti. L’emozione di un superbo cielo stellato, che esibiva altero la sua via lattea come un fitto pulviscolo a forma di cintura, spero rimarrà ben impressa negli animi di questi ragazzini di cui molti per la prima volta in vita loro, poterono assaporare la sua magica essenza. Un intricato disegno di innumerevoli stelle risaltava dal buio della notte con una tale intensità che anche noi adulti diventammo di colpo silenti bambini con gli occhi incollati alla volta celeste. E poi il riposo, divisi in due soli gruppi, i maschi con il collega, le femmine con me. Due stati d’animo diversi, due approcci alla intimità della comunità opposti dove il femminile seppe gestire con maggior padronanza la nuova esperienza, tanto che al mattino non ci fu bisogno di sveglie, il cicaleccio iniziò ben prima degli albori del nuovo giorno. Dopo la colazione, ancora un appuntamento con la didattica, ovvero ripasso e studio in natura di cartografia e orientamento. La meta della giornata era il bivacco battaglione alpini Gemona, lungo la vecchia mulattiera che portava sulla linea del fronte della Grande guerra, ai piedi dello Jof de Mezegnot. Il pendio dopo le malghe di Sompdogna divenuto ben presto un brillante lariceto, avrebbe dovuto tagliare il fiato, ma le capacità di sopravvivenza degli adolescenti sono imprevedibili. Inondati da un’altra giornata di sole, giungemmo a meta nello stupore di molti, increduli della bellezza di un contatto così diretto con la “grande” montagna. Villa Bucintoro quindi ci ospitò per un po’ e come una gentile padrona di casa permise che la truppa del ’98 potesse rifocillarsi giocando con i gracchi. Nel frattempo le cime circostanti sembravano farci un occhiolino d’intesa, accondiscendenti della nostra impresa: aver portato perfetti cittadini in alta montagna e aver fatto assaporare loro la bellezza e le caratteristiche di questo mondo. Ridiscendendo verso il rifugio, per noi insegnanti era ora di tirare le somme di questa uscita didattica e quindi il decretare che tanta fatica per tenere l’ordine e la disciplina poteva essere appagata anche da una percentuale relativamente bassa di memoria futura. Una bella pasta fumante e un po’ di libertà prima di avviarci nuovamente verso la Saisera, furono gli ultimi momenti di “alta quota” vissuti dai ragazzi. Una volta di nuovo alla Cappella Florit, il compito di Paolo era finito, ci riconsegnava, dopo un egregio lavoro educativo, la nostra armata brancaleone, che, nonostante tutto, sapeva ancora tener testa alla stanchezza incipiente. Ore 19.20: il diretto per Trieste si lasciava puntuale alle sue spalle i nostri monti oramai nel buio silenzioso della notte. In noi la speranza che almeno il ricordo di un magnifico cielo stellato di montagna, vissuto in compagnia dei propri compagni di classe e di tre insegnanti speciali, potrà ritornare nitido ed emozionato nella loro vita di adulti.
Ogni inaugurazione ha avuto la sua particolarità perché ogni sede e ogni appuntamento aveva ingredienti diversi… Muggia, uno degli ultimi per quest’anno. L’occasione in questo caso una manifestazione sportiva. Ci mancava: dall’inaugurazione ufficiale a S.Dorligo/Dolina, svolta nella ricorrenza della caduta dei confini, al Centro didattico naturalistico di Basovizza, al circolo rionale I. Grbec di Servola, alla festa paesana di Rupingrande/Repen, al concerto della pace a Sgonico/Zgonik e infine una maratonina, l’Euromaraton fra Muggia e Capodistria. Sabato 11 settembre, in piazza del Duomo a Muggia, dopo la carrellata di interventi di autorità e ospiti illustri, la presidente ha portato il saluto dell’associazione al pubblico presente ricordando come la caduta dei confini abbia permesso la realizzazione di molte cose fra le quali anche la maratonina in oggetto facendola esprimersi al meglio, senza barriere di alcun tipo, respirando aria libera. E infatti è proprio questo il clima che si è vissuto quella sera in piazza, una volontà di collaborazione fra i vari enti e gruppi presenti che porti a progetti volti a guardare avanti. E cosa c’era di meglio per noi delle Vie del Carso, nati dalla corsa in montagna e dalla MTB, spiriti liberi con la passione della cultura, della storia e delle tradizioni?